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lunedì 20 ottobre 2014

LA NOSTRA ASSURDA GUERRA CONTRO LA NATURA di George Monbiot


George Monbiot, The Guardian, Regno Unito, 1 ottobre 2014
tradotto e pubblicato su Internazionale n. 1073 del 17 ottobre 2014
I consumi stanno distruggendo un mondo infinitamente più affascinante e complesso dei beni che produciamo. Perché non ce ne rendiamo conto? 
Siamo arrivati al punto in cui chiunque sia capace di riflettere dovrebbe fermarsi e chiedersi cosa stiamo facendo. Se neanche la notizia che negli ultimi quarant’anni il mondo ha perso oltre la metà dei vertebrati (mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci) può farci capire che il nostro stile di vita è sbagliato, è difficile immaginare cosa potrebbe riuscirci. Chi può credere che un sistema sociale ed economico con questi effetti sia sano? Chi di fronte a una perdita del genere può definirlo progresso?
Per onestà va detto che l’era moderna è solo la prosecuzione di una tendenza che dura da due milioni di anni. La perdita di gran parte della megafauna africana sembra aver coinciso con il passaggio all’alimentazione carnivora compiuto dagli ante- nati degli esseri umani. Via via che abbiamo popolato gli altri continenti, anche la loro megafauna è scomparsa quasi subito. La datazione forse più affidabile dell’arrivo degli esseri umani in un luogo è proprio l’improvvisa scomparsa dei grandi animali. Da allora ci siamo addentrati nella catena alimentare eliminando i nostri predatori più piccoli, gli erbivori di medie dimensioni e adesso, con la distruzione dell’habitat e la caccia, stiamo cancellando la flora e la fauna di ogni tipo.
Una crescita per pochi
Tuttavia, la velocità distruttiva di oggi è inedita. Supera perfino quella del primo popolamento delle Americhe, 14mila anni fa, quando in poche decine di generazioni l’ecologia di un intero emisfero fu trasformata da una violenta estinzione che colpì numerose grandi specie vertebrate.
Per molti la colpa è dell’aumento della popolazione umana e non c’è dubbio che questo abbia contribuito. Ma ci sono altri due fattori determinanti: la crescita dei consumi e l’amplificazione dovuta alla tecnologia. Ogni anno si creano nuovi pesticidi, nuove tecniche di pesca, di estrazione mineraria e di lavorazione degli alberi. Abbiamo dichiarato guerra alla natura, una guerra che diventa sempre più asimmetrica. Perché siamo in guerra? Gran parte dei consumi dei paesi ricchi, che con le importazioni sono tra i primi responsabili di questa distruzione, non ha niente a che fare con i bisogni umani.
Quello che mi colpisce di più è proprio la sproporzione tra le perdite e i guadagni: la crescita economica di un paese i cui bisogni primari e secondari sono stati già soddisfatti equivale alla creazione di cose sempre più inutili per soddisfare desideri sempre più vaghi. Una delle caratteristiche della recente crescita nel mondo ricco è il numero esiguo di persone che ne ricavano un vantaggio. Quasi tutti i guadagni finiscono nelle mani di pochi: secondo uno studio del 2012 dell’università di Berkeley, negli Stati Uniti l’1 per cento più ricco intercetta il 93 per cento dell’aumento dei profitti prodotto dalla crescita. Perfino con tassi di crescita del due, tre per cento o superiori, le condizioni di lavoro della stragrande maggioranza della gente continuano a peggiorare. Le ore lavorative aumentano, gli stipendi ristagnano o diminuiscono, le mansioni diventano sempre più monotone, stressanti o difficili, i servizi peggiorano, gli alloggi sono quasi inaccessibili e ci sono sempre meno soldi per i servizi pubblici essenziali. A cosa e a chi serve questa crescita?
Serve a chi gestisce o possiede banche, società minerarie, aziende pubblicitarie, società di lobbying, fabbriche di armi, immobili, terreni, conti offshore. Noi siamo indotti a ritenerla necessaria e auspicabile da un sistema di marketing e d’influenza selettiva talmente intensivo e dilagante da riuscire a farci un lavaggio del cervello.
Così la grande erosione globale avanza consumando la Terra, cancellando tutto ciò che di più singolare e peculiare esista, sia nella cultura umana sia in natura, riducendoci ad automi rimpiazzabili in una forza lavoro globale omogenea, trasformando inesorabilmente le ricchezze del mondo naturale in un’anonima monocoltura. Non è il momento di dire basta? Non è ora di usare le straordinarie conoscenze e competenze accumulate per cambiare il modo di organizzarci, per contestare e rovesciare le tendenze che hanno determinato il nostro rapporto con il pianeta negli ultimi due milioni di anni e adesso distruggono ciò che resta a una velocità sorprendente? Non è il momento di mettere in discussione l’ineluttabilità della crescita infinita su un pianeta finito? Se non ora, quando?
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George Monbiot  è un giornalista, accademico, autore, ambientalista e attivista politico britannico. Tiene una rubrica settimanale sul giornale The Guardian:
http://www.theguardian.com/environment/georgemonbiot


domenica 12 ottobre 2014

IO STO CON LA SPOSA - 6 NOVEMBRE CINEMA CONDOVE ORE 21.00



assolutamente da non perdere!

proiezione al cinema di Condove

Giovedi 6 Novembre ore 21


in collaborazione con il Comune


un film di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry
"Siamo partiti dal basso, abbiamo tenuto duro nei momenti più difficili e adesso eccoci qui! Con voi a cambiare l'estetica della frontiera. E a sdoganare al grande pubblico l'idea della libera circolazione e della disobbedienza civile".




Riportiamo da www.lasicilia.it un commento al film:



«C’è un sole unico per tutta l’umanità, una sola luna. Anche il mare è di tutti, così la vita. È di tutti e per tutti». A ricordarcelo è Tasneem Fared, giovane sposa palestinese in viaggio da Milano a Stoccolma con l’abito bianco indosso, il futuro marito al fianco e un corteo di amici siriani, palestinesi e italiani al seguito. Tutti protagonisti del coraggioso film-documentario “Io sto con la sposa” di Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, uscito nelle sale italiane il 9 ottobre.
Coraggioso ed emozionante perché non è un matrimonio come tanti, quello di Tasneem e Abdallah. La scintilla si accende quando il giornalista Gabriele Del Grande – classe 1982 e già l’esperienza sul campo delle primavere arabe e della guerre in Libia e in Siria – e il poeta palestinese siriano Khaled Soliman Al Nassiry – ormai milanese di adozione – incontrano a Milano cinque palestinesi e siriani in fuga dalla guerra, sbarcati a Lampedusa e alcuni sopravvissuti alla tragedia dell’11 ottobre di un anno fa, quando a distanza di una settimana dalla precedente strage in mare, al largo dell’isola morirono altri 260 profughi siriani, tra cui almeno sessanta bambini. Per Abdallah, i coniugi Mona e Ahmed, il giovanissimo Manar e suo padre Alaa l’Italia è solo un luogo di passaggio. Per questo sono decisi a proseguire il viaggio, come tanti altri, verso la Svezia. Ancora da clandestini. Le leggi italiane ed europee sull’immigrazione, infatti, non danno loro altra scelta, così Gabriele e Khaled, piuttosto che lasciarli nuovamente in balia dei trafficanti di uomini che gestiscono anche il contrabbando via terra verso nord, decidono di aiutarli con un atto di disobbedienza civile che potrebbe costare loro fino a quindici anni di prigione. Mettono, quindi, in scena un finto matrimonio travestendo da sposi l’amica Tasneem e il “fuggitivo” Abdallah e da invitati alla cerimonia una decina di altri amici e affidano al regista milanese Antonio Augugliaro il compito di documentare il viaggio vero, folle e miracoloso di questo improbabile corteo nuziale attraverso l’Europa.Tremila chilometri in quattro giorni, tra il 14 e il 18 novembre 2013, sulla strada che da Milano deve portarli a Stoccolma. In auto fino a Ventimiglia, a piedi attraverso il “Passo della morte” che a Grimaldi Superiore segna il confine tra Italia e Francia e poi di nuovo in auto attraverso il Lussemburgo fino a Bochum in Germania e Copenaghen in Danimarca, ultima tappa prima di raggiungere la Svezia. Ogni passaggio di frontiera, confine, dogana è un’esplosione di tensione, prima, e di gioia, dopo. Una gioia che va festeggiata doppiamente, dato che ad accogliere il corteo ci sono di solito amici e parenti lasciati anni addietro nei rispettivi Paesi di origine e rincontrati adesso per la prima volta. Come ad un vero banchetto di nozze, dove si canta, si brinda, si balla, anche per esorcizzare il dolore e la malinconia che riempiono i loro racconti.“Io sto con la sposa”, realizzato grazie ad una efficace campagna di crowdfounfing online sulla piattaforma Indiegogo (100 mila euro in 60 giorni con il contributo di 2617 persone in 38 Paesi) apre tappa dopo tappa, uno squarcio nelle vite dei protagonisti. Che si raccontano ricordandoci le contraddizioni spesso crudeli e spietate del sistema Europa e l’orrore da cui fuggono migliaia di uomini, donne e bambini che per la disperazione arrivano a pagare mille dollari a testa per morire in mare. Racconti cui dà voce anche il rap grintoso e insieme struggente del piccolo Manar, un vero giovanissimo talento che esprime in musica tutta la maturità prematura che l’esperienza di vita gli ha fatto fiorire dentro. «Quanti occhi hanno pianto mentre il mondo restava a guardare? » canta Manar, ripercorrendo la storia di un popolo senza terra, da sempre costretto allo status di rifugiato. Un popolo che resterà unito «anche se la morte si sarà accampata dentro di noi».Oggi, nove mesi dopo il viaggio, Abdallah, Mona e Ahmed vivono in Svezia dove hanno ottenuto lo status di rifugiato politico. Manar e suo padre Alaa, invece, sono stati respinti in Italia dove però hanno ottenuto asilo politico. Tasneem è tornata in Italia con Gabriele, Khaled e gli altri invitati. Il documentario è “dedicato ai nostri figli perché ricordino sempre che nella vita arriva il momento di scegliere da che parte stare”. Io sto con la sposa. E tu?

DAVID GRAEBER SU ROJAVA


  
cropped-cizreautonomy[L'antropologo David Graeber ha appena pubblicato un articolo in cui sostiene da una prospettiva libertaria e antiautoritaria la lotta dei combattenti curdi del PKK e delle combattenti del YJA Star e l'esperimento autogestionario nella zona di Rojava, sollevando una serie di parallelismi con le vicende della Guerra civile spagnola del 1936 (dall'importanza della lotta condotta dalle donne curde alle strategie di non intervento dei paesi circostanti). David Graeber, che ha pubblicato svariati libri in italiano, ha concesso a Carmilla la facoltà di riprendere in traduzione italiana il suo articolo, comparso in originale qui. La traduzione italiana del testo - fatte salve poche modifiche, è stata recuperata da questo link.] A.P.
Nel 1937, mio padre si arruolò volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della Repubblica Spagnola. Quello che sarebbe stato un colpo di Stato fascista era stato temporaneamente fermato da un sollevamento dei lavoratori, condotto da anarchici e socialisti, e nella maggior parte della Spagna ne seguì una genuina rivoluzione sociale che portò intere città sotto il controllo di sistemi di democrazia diretta, le fabbriche sotto la gestione operaia e le donne ad assumere sempre più potere.
I rivoluzionari spagnoli speravano di creare la visione di una società libera cui il mondo intero avrebbe potuto ispirarsi. Invece, i poteri mondiali dichiararono una politica di “non intervento” e mantennero un rigoroso embargo nei confronti della repubblica, persino dopo che Hitler e Mussolini, apparenti sostenitori di tale politica di “non intervento”, iniziarono a fare affluire truppe e armi per rinforzare la fazione fascista. Ne risultarono anni di guerra civile terminati con la soppressione della rivoluzione e con uno dei più sanguinosi massacri del secolo.
Non avrei mai pensato di vedere, nel corso della mia vita, la stessa cosa accadere nuovamente. Ovviamente, nessun evento storico accade realmente due volte. Ci sono infinite differenze fra quello che accadde in Spagna nel 1936 e quello che sta accadendo ora in Rojava, le tre province a larga maggioranza curda nel nord della Siria. Ma alcune delle somiglianze sono così stringenti e così preoccupanti che credo sia un dovere morale per me, cresciuto in una famiglia le cui idee politiche furono in molti modi definite dalla Rivoluzione spagnola, dire:  non possiamo fare sì che tutto ciò finisca ancora una volta allo stesso modo.
La regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei pochi raggi di luce – un raggio di luce molto luminoso, a dire il vero – a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana. Dopo aver scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, nonostante l’ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma si è configurato come un considerevole esperimento democratico. Sono state create assemblee popolari che costituiscono il supremo organo decisionale, consigli che rispettano un attento equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, un arabo e un assiro o armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono consigli delle donne e dei giovani, e, in un richiamo degno di nota alle Mujeres Libres della Spagna, c’è un’armata composta esclusivamente da donne, la milizia “YJA Star” (l’”Unione delle donne libere”, la cui stella nel nome si riferisce all’antica dea mesopotamica Ishtar), che ha condotto una larga parte delle operazioni di combattimento contro le forze dello Stato Islamico.
Come può qualcosa come tutto questo accadere ed essere tuttavia perlopiù ignorato dalla comunità internazionale, persino, almeno in gran parte, dalla sinistra internazionale? Principalmente, sembra, perché il partito rivoluzionario del Rojava, il PYD, lavora in alleanza con il turco Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), un movimento combattente marxista impegnato sin dagli anni Settanta in una lunga guerra contro lo Stato turco. La Nato, gli Stati Uniti e l’Unione Europea lo classificano ufficialmente come “organizzazione terroristica”. Nel frattempo, l’opinione di sinistra lo descrive spesso come Stalinista.
Ma, in realtà, il PKK non assomiglia neppure lontanamente al vecchio, organizzato verticalmente, partito Leninista che era una volta. La sua evoluzione interna, e la conversione intellettuale del suo fondatore, Abdullah Ocalan, detenuto in un’isola-prigione turca dal 1999, lo hanno condotto a cambiare radicalmente i propri scopi e le proprie tattiche.
Il PKK ha dichiarato che esso non cerca nemmeno più di creare uno Stato curdo. Invece, ispirato in parte dalla visione dell’ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin,  ha adottato una visione di “municipalismo libertario”, invitando i curdi a formare libere comunità basate sull’autogoverno, basate sui principi della democrazia diretta, che si federeranno tra loro aldilà dei confini nazionali – che si spera che col tempo diventino sempre più privi di significato. In questo modo, suggeriscono i curdi, la loro lotta potrebbe diventare un modello per un movimento globale verso una radicale e genuina democrazia, un’economia cooperativa e la graduale dissoluzione dello stato-nazione burocratico.
A partire dal 2005 il PKK, ispirato dalla strategia dei ribelli zapatisti in Chiapas, ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nei confronti dello Stato turco e ha iniziato a concentrare i propri sforzi nello sviluppo di strutture democratiche nei territori di cui già ha il controllo. Alcuni si sono chiesti quanto realmente sinceri siano questi sforzi. Ovviamente, elementi autoritari rimangono. Ma quello che è successo in Rojava, dove la Rivoluzione siriana ha dato ai curdi radicali la possibilità di condurre tali esperimenti su territori ampi e confinanti fra loro, suggerisce che tutto ciò è tutt’altro che un’operazione di facciata. Sono stati formati consigli, assemblee e milizie popolari, le proprietà del regime sono state trasformate in cooperative condotte dai lavoratori – e tutto nonostante i continui attacchi dalle forze fasciste dell’ISIS. Il risultato combacia perfettamente con ogni definizione possibile di “rivoluzione sociale”. Nel Medio Oriente, almeno, tali sforzi sono stati notati: particolarmente dopo che il PKK e le forze del Rojava per combattere efficacemente e con successo nei territori dell’ISIS in Iraq per salvare migliaia di rifugiati Yezidi intrappolati sul Monte Sinjar dopo che le locali milizie peshmerga avevano abbandonato il campo di battaglia. Queste azioni sono state ampiamente celebrate nella regione, ma, significativamente, non fecero affatto notizia sulla stampa europea o nord-americana.
Ora, l’ISIS è tornato, con una gran quantità di carri armati americani e di artiglieria pesante sottratti alle forze irachene, per vendicarsi contro molte di quelle stesse milizie rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di massacrare e ridurre in schiavitù – si, letteralmente ridurre in schiavitù – l’intera popolazione civile. Nel frattempo, l’armata turca staziona sui confini, impedendo che rinforzi e munizioni raggiungano i difensori, e gli aeroplani americani ronzano sopra la testa compiendo occasionali, simbolici bombardamenti dall’effetto di una puntura di spillo, giusto per poter dire che non è vero che non fanno niente contro un gruppo in guerra con i difensori di uno dei più grandi esperimenti democratici mondiali.
Se oggi c’è un analogo dei Falangisti assassini e superficialmente devoti di Franco, chi potrebbe essere se non l’ISIS? Se c’è un analogo delle Mujeres Libres di Spagna, chi potrebbero essere se non le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobané? Davvero il mondo – e questa volta, cosa più scandalosa di tutte, la sinistra internazionale, si sta rendendo complice del lasciare che la storia ripeta se stessa?
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