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domenica 26 aprile 2015

La notte dopo la liberazione di Torino


 Per quanto fossi stanchissima, non mi riusciva di dormire. Pensavo a tutto quel ch’era accaduto in quella lunghissima giornata; ma pensavo soprattutto al domani. Pensavo a tutto quel ch'era accaduto in quella lunghissima giornata; ma pensavo soprattutto al domani. I colpi d'arma da fuoco che si sentivano ancora lontano, di quando in quando, mi ricordavano che, nonostante l'esaltazione festosa di quel giorno, la guerra non era ancora finita; e sapevo che grosse forze tedesche erano ancora a poca distanza da Torino, a Grugliasco, nel Canavese. Ma non era questo in fondo che mi preoccupava. La lotta cruenta - anche se si potevano avere ancora degli episodi terribili (come effettivamente si ebbero, per esempio a Grugliasco*) - era virtualmente terminata. Il Reich, secondo la profetica iscrizione letta nel Comando francese di Plampinet, era veramente en ruines. Presto sarebbero giunti gli Alleati. Non ci sarebbero più stati bombardamenti, incendi, rastrellamenti, arresti, fucilazioni, impiccagioni, massacri. E questa era una grande cosa.
E neanche mi spaventavano le difficoltà pratiche, materiali, che bisognava affrontare per ricostruire un paese disorganizzato e devastato: ché le infinite risorse del nostro popolo avrebbero trovato per ogni cosa le più impensate e impensabili soluzioni, Confusamente intuivo però che incominciava un'altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza,- facili da individuare e da odiare, - ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti.
E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare; per non abbandonarci alla comoda esaltazione d'ideali per tanto tempo vagheggiati, per non accontentarci di parole e di frasi, ma rinnovarci tenendoci «vivi». Si trattava insomma di non lasciar che si spegnesse nell'aria morta d'una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d'umanità solidale e fraterna che avevamo visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati.
Sapevo che - anche caduta, con l'esaltazione della vittoria, la meravigliosa identità che in quei giorni aveva unito quasi tutto il nostro popolo - saremmo stati in molti a combattere questa dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri, sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stato un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti perseguir la propria luce e la propria via. Tutto questo mi faceva paura. E a lungo, in quella notte - che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo - mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che mi accingevo ad affrontare con trepidante umiltà.

da Diario Partigiano, Ada Gobetti

A Grugliasco, il 29 aprile 1945, i tedeschi fucilarono sessantasei cittadini.

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